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Venerdì Santo

Il pathos per la sacra ricorrenza si ergeva su tutto senza separazioni di censo

Processione del Venerdì Santo ai primi del Novecento

Doveva essere il Venerdì Santo di una Pasqua bassa quello raffigurato dalla folla al seguito della processione nella foto di apertura del volume Atripalda Storie e immagini dal ’900 del prof. R. La Sala. Non vi erano foglie sui platani, non vi erano ancora i lecci, al loro posto i più umili ligustri, svettava imponente il tiglio dietro il casotto del Dazio, quello che poi abbiamo conosciuto tra gli anni ’50 e ’60 basso e cavo all’interno, da dove si poteva accedere sui rami e che ha rappresentato uno straordinario strumento di gioco spericolato per più di una generazione. Vi erano le nostre nonne e i nostri nonni coperti da pesanti scialli, da pastrani, tabarri e coppole, per i ceti più umili, cappotti e cappelli portati dai benestanti. Uno scorcio variegato dell’Atripalda di allora che si ritrovava per un’occasione che non ammetteva separazioni di censo, un’occasione che univa perché si ergeva sopra di tutto: il pathos per la sacra ricorrenza. Molto presumibilmente la folla raffigurata dalla foto seguiva la processione attorniando, oltre all’uomo che portava la croce, il Gesù disteso sul sudario e la Vergine Addolorata, due belle statue custodite nella chiesa di S. Nicola da dove la cerimonia aveva inizio. Dal primo mattino, una tromba sul sagrato della chiesa suonava a intervalli regolari emettendo squilli mesti e cupi, mentre per le strade di tutti i quartieri, maggiormente quelli popolari, girava la “troccola” che da noi, tra tante varianti, era costituita da un contenitore cilindrico che, messo in moto con la torsione del polso, faceva scattare dei martelletti, i quali causavano un forte suono legnoso che serviva a scandire le ore, compito assolto negli altri giorni dell’anno dall’orologio della Dogana, per la ricorrenza “attaccato” e dunque muto, come tutte le altre campane, destinato a ritornare a suonare i quarti d’ora solo nel pomeriggio del Sabato Santo a simboleggiare la Resurrezione. La processione era preceduta, fino al Concilio Vaticano II, da una cerimonia che si teneva nella chiesa Madre: la “Schiovizzazione”  (deposizione). Da una grande croce una statua snodata del Cristo veniva deposta sul sudario mentre un sacerdote predicava la Passione. La processione partiva alle 15,30 da S. Nicola preceduta da un incappucciato biancovestito, a partire almeno dagli anni ’30, che reggeva una grossa croce listata a lutto, lo seguiva una schiera di ragazzi che portavano in braccio i simboli materiali collegati alla morte del Cristo: i chiodi, il martello, la tenaglia, la lancia, la scala e il gallo. Nel suo procedere la processione si fermava in tutte le chiese del centro, dove un predicatore teneva la sua orazione. Intanto la gente – quella che non partecipava alla processione, in maggioranza forestieri provenienti dai paesi vicini – si assiepava ai piedi della rampa di S. Pasquale in attesa dell’arrivo del corteo. Quando appariva l’incappucciato biancovestito, la folla si apriva lasciando lo spazio in modo che il portatore della croce effettuasse le canoniche tre cadute in un silenzio surreale. Arrivati dinanzi al convento di S. Giovanni Battista sul sagrato della chiesa di S. Pasquale, in uno scenario suggestivo rappresentato dalla collina che sovrasta la piazza (dove non erano stati ancora realizzati il cinema e il palazzo Lazzerini), si levava  la voce stentorea di un predicatore francescano che rievocava la Passio Christi. Questa disponibilità da parte dei conventuali francescani veniva ricambiata dalla Confraternita di Santa Monica della chiesa di S. Nicola con la partecipazione di tutta la congrega alla processione di S. Pasquale del successivo 17 maggio. Ringrazio Sabino Berardino per avermi ricordato la cerimonia della “schiovizzazione” e quest’ultimo episodio che personalmente non ricordavo. Dal 1997 l’incappucciato biancovestito non partecipa più alla processione perché da quell’anno è iniziata la teatralizzazione dell’evento, che si tiene a sera inoltrata e che vede protagonisti gli eredi diretti del biancovestito. Si tratta di una delle migliori manifestazioni del genere che si tiene in provincia di Avellino, ma che non riesce a decollare come meriterebbe: forse con uno sforzo come quello fatto per Giullarte, e con un decimo delle risorse investite in quella occasione per le spese di pubblicità, si potrebbe centrare l’obiettivo.

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