Mercoledì, 24 Apr 24

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“I padroni non verranno mai più d’agosto”

Viaggio nella vita contadina del passato, fra aneddoti e curiosità

Soffermandomi a chiacchierare nel corso degli anni con anziani contadini, è capitato molto spesso che il discorso cadesse sulle condizioni di chi viveva del lavoro della terra fino agli anni ’70. Puntualmente emergeva come la vita del contadino fosse sempre stata avara di soddisfazioni e piena di sacrifici. Può sembrare un’ovvietà, ma per i giovani d’oggi che non hanno conosciuto la realtà delle nostre contrade non è così. Il nostro territorio comunale non ha una grossa estensione territoriale (solo 8,53 kmq), e di conseguenza il suolo coltivabile non è vasto: di fatto il nostro non è mai stato un comune agricolo. Le zone di campagna, mutate nel tempo, interessavano la parte collinare di Cerzete, S. Gregorio, Alvanite e tutta quella pianeggiante lungo le sponde del fiume Sabato. Principalmente a Cerzete si rilevava una cospicua presenza di proprietà appartenenti a coltivatori diretti che, seppur a volte di piccolissime dimensioni, erano abbastanza diffuse su tutto il territorio. Tra di esse, destinate all’affitto si ricordano le cosiddette “masserie”, delle quali poche, se non pochissime, erano quelle che raggiungevano i dieci ettari di estensione. Le colture principali erano nella zona collinare il frumento e la vite; quelle pianeggianti (nella quasi totalità irrigue per effetto di una fitta rete di canali alimentati da sbarramenti negli alvei del Sabato, del Salzola e del Rigatore detti “palate e camassi”) erano caratterizzate da coltivazioni di ortaggi e verdure e dai semenzai – le piccole piantine prodotte in questi ultimi trovavano facile collocazione durante il mercato del giovedì. Le proprietà, almeno quelle più consistenti, erano detenute da qualche decina di famiglie atripaldesi. La tipologia di contratto più diffuso era quella del fondo in affitto condizionato, rari erano i casi di mezzadria, enfiteusi, soccida e altro. Tra conduttore e proprietario esisteva generalmente un rapporto improntato al paternalismo e scandito da regole ferree. Tra quanto tramandato dalla tradizione orale e dalla lettura di qualche raro contratto – i contratti erano rari perché i rapporti di forza erano inesistenti e i contadini contavano ben poco – si ricava un quadro di quelle che erano le condizioni tra padroni e fittavoli. Queste condizioni non erano omogenee e cambiavano in dipendenza del carattere e delle pretese del padrone, ma in tutti i casi si trattava sempre di un rapporto a senso unico. Non poche volte queste condizioni degeneravano in aspri conflitti e in più di qualche caso si sono avuti esiti drammatici. Diffusissima era la condizione di provvedere alla legna per il riscaldamento invernale dell’abitazione padronale, a cui provvedevano le donne della famiglia contadina portando sul capo a volte per chilometri le pesantissime “sarcine”. Tra le tante condizioni di cui ho trovato notizia, le più curiose, ma che meglio illustrano il tipo di rapporto che veniva instaurato, erano le seguenti: l’obbligo del fittavolo di provvedere, in caso di terreno bagnato, a condurre il padrone fino alla casa colonica con l’asino o addirittura sulle spalle; le pulizie pasquali che dovevano essere effettuate dalle donne della famiglia contadina per l’intera Settimana Santa presso la casa padronale; le dimensioni delle uova pattuite che dovevano passare attraverso un apposito calibro; tutte le primizie del fondo che non potevano essere toccate dal conduttore se non assaggiate dal proprietario, ecc. Di queste ‘perle’ ve ne erano a iosa. Mi è rimasto impresso un racconto udito anni fa: durante le trattative per un affitto tra un avvocato e un tale chiamato Cucù, il padrone aveva redatto un intero foglio bollato di condizioni e si era fermato solo all’ultimo rigo. Il fittavolo lo pregò a quel punto di aggiungere una breve frase. L’avvocato cercò di sottrarsi alla richiesta con la motivazione della mancanza di spazio, ma nulla potette di fronte alla perseveranza del fittavolo che fino ad allora era stato solo ad ascoltare condizioni su condizioni e dovette accondiscendere. E il contadino dettò: Cucù ’a massaria nun ’a vòle cchiù.

Ho scelto come titolo di questo intervento l’ultimo verso di una poesia dell’avvocato irpino Pasquale Stiso, poeta perito per il male di vivere che, avendo dedicato la sua giovane vita per la difesa dei contadini e delle donne d’Irpinia, dai più è stato paragonato a Rocco Scotellaro. In questi versi il sindaco-poeta, dopo aver assistito a tanti soprusi e aver lottato per i diritti dei più umili, immagina un futuro radioso per la sua gente, i cui occhi finalmente «guardano fieri i nostri simili». Lo spunto per questi ricordi mi è invece giunto dall’esempio di Eleazaro Vuotto, sarto di Montella, che con una morale rigorosa basata sulla coerenza ai valori e alle idee, che dovrebbe essere d’esempio ai giovani, si è battuto per l’emancipazione della gente e della terra non solo d’Irpinia.

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