Venerdì, 29 Mar 24

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Corsi e ricorsi

Già cinquant’anni fa il ritiro dei rifiuti avveniva “porta a porta”. Una città più pulita e più salubre è un successo per tutti

Dopo il commissariamento disposto dal Prefetto per il mancato raggiungimento delle quote di rifiuti differenziati previste per legge, il Commissario ad acta ha introdotto modifiche radicali nel servizio di raccolta e smaltimento dei RSU (Rifiuti Solidi Urbani) e delle altre tipologie assimilabili anche per il comune di Atripalda. Modifiche che ci obbligano a rivedere le nostre abitudini. Adesso si parla tanto di riciclo e di recupero di parte consistente dei rifiuti come se fosse la prima volta, ma in realtà questa attuale necessità non è affatto una novità. E allora potrebbe essere utile una sorta di viaggio nella memoria anche su un argomento del genere, che oggi è diventato anche un grande problema sociale.

Partiamo dal passato, dagli anni intorno a quello che è stato definito il periodo del boom economico. Un tempo che sembrava scorrere molto più lentamente, un tempo non cadenzato sulle ore ma regolato sul ritmo delle stagioni e sul susseguirsi del ciclo di mattino, sera, notte e poi di nuovo mattino. In una città che non era ancora caotica come lo è oggi, alle prime luci dell’alba cominciavano a muoversi delle figure che con il caldo o col freddo affrontavano il compito del loro quotidiano lavoro: erano gli “scopatori”. Uso volutamente questo termine, che si ritrova ancora oggi nella lessicografia, perché personalmente ritengo abusati i neologismi di spazzini, netturbini e operatori ecologici, che sono, secondo il mio modesto parere, una concessione formale che molto spesso serve a ‘nobilitare’ una professione che invece andrebbe tutelata partendo dal trattamento economico. Considerato anche il fatto che oggi questo lavoro umile ma fondamentale ha travalicato antiche barriere sociali e non è certamente raro, specialmente nelle grandi città, trovare “scopatori” laureati e addottorati. Ai tempi cui mi riferisco il compito principale di questi lavoratori era lo spazzamento delle strade e il ritiro realmente “a porta a porta” dei pochi rifiuti prodotti. Pochi erano i rifiuti perché tutto ruotava attorno al concetto di massimo riutilizzo: per esempio il pane che si comprava direttamente ai forni, io ne ricordo almeno cinque, era avvolto nella carta da pane che non veniva buttata ma riusata per contenere altri alimenti, in special modo le colazioni da portarsi sul lavoro; l’acquisto di qualsiasi tipo di bevanda non poteva prescindere dalla riconsegna del vuoto o dell’immissione del prodotto nel contenitore portato da casa; erano praticamente inesistenti tutte quelle confezioni che siamo abituati a vedere oggi, sempre voluminose e molte volte più pesanti del prodotto che contengono. Tutto veniva contenuto nella ‘mitica’ borsa della spesa, in paglia quella dei ceti popolari, in tessuto quella dei ceti più abbienti. Era abitudine casalinga quella di utilizzare la cenere prodotta dal braciere per il riscaldamento e i fondi di caffè della ‘napoletana’ come concime e geodisinfettante per le piante d’appartamento.

I pochi scopatori dipendenti comunali operavano con il classico carretto provvisto di due bidoncini, i rifiuti raccolti venivano smaltiti principalmente in una scarpata del Salzola, in un posto che attualmente si trova di fronte alla galleria del nuovo acquedotto di Napoli in via Acquachiara, dove si era creato per effetto dell’avulsione delle acque un restringimento considerevole della strada. Accanto ai dipendenti comunali operavano due figure atipiche: Savino ’e sardone e ’O muzzunaro. Il primo era un personaggio bonario che, a servizio di due privati agricoltori, era dedito al recupero delle deiezioni animali presenti nelle strade, deiezioni che non erano solo quelle canine, ma per la maggior parte provenivano dai numerosi quadrupedi utilizzati per il trasporto, e da quella che oggi chiamiamo frazione organica o umido che veniva poi utilizzata come concime naturale. Il secondo era un personaggio sfuggente perché non sempre riconducibile alla stessa persona: lo stesso appellativo era considerato in senso dispregiativo come soggetto con poca voglia di lavorare mentre, in effetti, il più delle volte, trattandosi di un invalido o affetto da menomazione, svolgeva un umile ma “utile” mestiere. La sua attività consisteva nel recuperare mozziconi di sigaretta o sigari per recuperarne la parte di tabacco non bruciata, che avvolgeva poi in cartine con cui confezionava nuove sigarette da utilizzare per uso personale o rivenderle. Nei casi più evoluti e in presenza di consistenti quantitativi di tabacco la rivendita era effettuata per pochi centesimi direttamente allo Stato, il cui Monopolio non disdegnava di realizzare nuove sigarette di qualità popolare.

La fase del completo riutilizzo dei rifiuti, tratto distintivo della società italiana fino agli anni del boom economico, si esaurisce progressivamente con il miglioramento delle condizioni di vita della grande massa della popolazione. Comincia a imporsi una nuova cultura che ci porta a dimenticare come necessariamente, ancora oggi, noi abbiamo bisogno di riutilizzare la stragrande maggioranza delle cose che ci circondano. Sotto un certo punto di vista già lo facciamo: usiamo le stesse scarpe e gli stessi abiti, per periodi limitatamente lunghi, mangiamo negli stessi piatti, utilizziamo la stessa auto. In tutti noi, se ben riflettiamo, vi è un rapporto insopprimibile con le cose con cui siamo venuti a contatto o che ci sono appartenute, avendo trasfuso in esse una parte di affetto che è ampiamente superiore al desiderio che ci spinge all’acquisto del nuovo e che trae linfa dagli assillanti condizionamenti pubblicitari tipici della società consumistica. Sono cose e gesti che facciamo tutti i giorni; eppure da un lato vi è l’istinto alla conservazione e al mantenimento di quello che generalmente usiamo, dall’altro la costante dimenticanza del fatto che il recupero e il riutilizzo converrebbero a tutti, a chi cede e a chi acquisisce, perché tale comportamento abbatterebbe notevolmente il consumo di materie prime, ridurrebbe la produzione di rifiuti e di conseguenza dei costi annessi. A parte considerazioni sociologiche senza pretese che vogliono essere un impulso a riconsiderare il problema partendo da noi stessi, ritorniamo a quella che è la nostra realtà. Una svolta nella produzione di rifiuti si è avuta con l’affermazione della società consumistica e con il conseguente avvento del sacchetto di plastica che, pur inventato nel 1961, ha cominciato a diventare un serio problema dai primi anni ’70. L’abbandono della pratica della spesa giornaliera, dovuto alla riduzione del numero delle casalinghe, ha determinato la scomparsa della borsa per la spesa e alla concentrazione degli acquisti in un’unica soluzione presso i supermercati. Tale circostanza ci ha portato anche per una questione di praticità a un uso sconsiderato dei sacchetti la cui biodegradabilità è in concreto nulla. La plastica è indistruttibile, permane nel suolo o nelle acque per secoli se non per migliaia di anni, lo stesso incenerimento non risolve il problema perché a livello volumetrico si ha una diminuzione mentre resta inalterato il livello quantitativo. Siamo arrivati al paradosso che mentre Paesi cosiddetti arretrati hanno provveduto con una legislazione severa a limitare l’uso della plastica (per esempio la Mauritania prevede severe pene detentive per chi utilizza e abbandona tali sacchetti), in Italia solo allo scadere dell’ultima legislatura si è dato corso a una legge che disciplina i nuovi sacchetti in materiale biodegradabile che andranno a sostituire quelli realizzati con plastiche non riciclabili. Va da sé che tale disciplina, anche se rientrante nei parametri europei, è alquanto blanda, giacché prevede sanzioni economiche solo per i produttori che violano le norme. Ma come si presenta la situazione nella nostra città? Già dalla fine degli anni ’80 vi era stato un tentativo di differenziazione con l’installazione di apposite campane per il vetro, la plastica e la carta. In seguito, in anni più recenti (amministrazione Rega) un secondo esperimento che prevedeva la separazione dell’organico in appositi bidoncini non ebbe miglior sorte. In questi tentativi l’insuccesso non può attribuirsi genericamente all’indisciplina dell’utenza, perché inizialmente si è avuta sempre una buona risposta e ciò è dimostrato dal successo che da oltre due anni si sta avendo con la differenziata nelle zone periferiche che contribuiscono sostanzialmente alla percentuale di circa il 30% su cui eravamo attestati. Lo scarso risultato, come da diverse parti denunciato, forse era dovuto alla raccolta e allo smaltimento “tal quale” effettuata dalle ditte incaricate. Il provvedimento adottato dal Prefetto attraverso il commissariamento, al netto dell’amaro in bocca dovuto alla delegittimazione dell’organo democraticamente eletto, appare – salvo i dovuti aggiustamenti – abbastanza convincente. Se i dati che sono stati diffusi si manterranno tali, anche se è prevedibile un loro calo fisiologico, saremo oltre le quantità previste dalla legge. Questo significa che, considerato il quantitativo sversato per effetto del minor conferimento da altri comuni sommato alle premialità previste, vi sarà un effetto positivo sulla tariffazione che a causa dell’introduzione della TARES (Tassa rifiuti e servizi) sarebbe altrimenti insostenibile. È necessaria però la realizzazione di un’isola ecologica cui poter conferire gli ingombranti, i RAEE (Rifiuti da apparecchiature elettriche e elettroniche), gli sfalci e le ramaglie. L’auspicio è che, scaduto il mandato del Commissario ad acta, il delegato al ramo riesca a mantenere alto il controllo del rispetto delle disposizioni, perché una città più pulita e più salubre è un successo per tutti.

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