Sabato, 20 Apr 24

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Natale con zì Minco

Il momento più commovente e più coinvolgente era la mattina della vigilia

Raccontare i fatti di una piccola comunità può apparire trascurabile in una società sempre più globalizzata e distratta come la nostra, troppo spesso poco interessata alle differenze e alle tradizioni. Ma quando questo racconto scaturisce dalla necessità di testimoniare attraverso il ricordo gli uomini, gli eventi, le cose in modo che chi faceva parte di quel contesto possa riviverne lo spirito e chi non ne faceva parte possa in parte conoscerlo, l’esercizio della memoria non può mai essere trascurato. Oggi la scolarizzazione di massa e le moderne tecnologie della comunicazione rischiano di relegare gli usi e i costumi delle tradizioni in un ambito meramente folkloristico, mentre essi concorrono in maniera determinante alla costituzione della cultura e della civiltà dei popoli. Abbiamo dimenticato troppo presto che fino ai primi decenni del secolo scorso nelle nostre zone interne, ma in generale in tutto il Sud, l’analfabetismo era altissimo e il sapere codificato era ristretto alle sole classi dirigenti. A questo sapere dotto si contrapponeva quello degli umili tramandatosi quasi esclusivamente tramite la tradizione orale, tradizione che nel tempo aveva costruito una vera e propria “letteratura degli analfabeti”, che, pur se confinata in spazi ristretti di diffusione per l’uso della lingua dialettale, creava legami comunitari forti, ricchi di valori capaci di salvaguardare la memoria collettiva. È con questo spirito che quando affiorano ricordi che sono legati alla nostra microstoria, senza nessuna pretesa né letteraria né storica, è utile ripercorrerli anche in modo semplice, alla stregua dei “narratori” che per il passato ci hanno tramandato oralmente un patrimonio inestimabile.

Zi’ Minco era uno zampognaro abruzzese dall’aspetto imponente - come suol dirsi - era un omone. Il suo abbigliamento era quello tipico dei veri zampognari così come ci sono stati tramandati dall’iconografia ufficiale: tabarro di lana grezza, corpetto di pelliccia, cioce e cappello con nastri. Arrivava ad Atripalda alla fine di novembre accompagnato da un suo parente collaboratore che suonava la ciaramella. Appena giunti in paese, prendevano alloggio presso un piccolo albergo che si trovava nel primo tratto di via Manfredi, caratterizzato da un ingresso con tre scalini – l’edificio che comprendeva l’albergo è stato abbattuto nel dopo terremoto –; per il vitto erano clienti di una nota osteria di via Fiume. Come prima cosa giravano di casa in casa portando in regalo un attrezzo in legno per la cucina, quasi sempre una cucchiaia. Coloro che accettavano – ed erano la maggior parte – permettevano che giornalmente Zì Minco passasse per una suonata, la maggior parte delle volte davanti al presepio, oppure dinanzi all’albero di Natale. Ad Atripalda come in tutto il Sud il presepio faceva parte della tradizione e la sua preparazione non differiva di molto da come ci è stata rappresentata dal grande Edoardo in una delle sue celebri commedie. Nella case dei benestanti e degli artigiani i presepi erano spesso delle piccole opere d’arte; in quelle dei ceti meno abbienti si riduceva all’esposizione delle statuine di terracotta della Sacra Famiglia sormontata da un ramo di Pino Domestico addobbato con mandarini, qualche caramella e qualche cioccolatino. Zì Minco cominciava la sua attività il 1° dicembre per la novena della S.S. Immacolata che si teneva nella Chiesa Madre e ricominciava il 15 per quella di Natale che si teneva nella chiesa di S. Maria delle Grazie. Il suo giro partiva proprio da questa chiesa al termine della funzione religiosa per proseguire per tutta la giornata passando di casa in casa. Oggi può sembrare impossibile effettuare il giro della città fermandosi per suonare in ogni casa, ma bisogna tener conto di come era l’Atripalda del tempo, quasi tutta raccolta sulla riva destra del Sabato e con il solo asse longitudinale che partiva da via Roma e si fermava prima del cimitero. La celebrazione della novena di Natale iniziava alle 5,30 della mattina, richiamando numerosi fedeli e infatti la chiesa era sempre strapiena. Assidui frequentatori erano principalmente i contadini che per il loro legame con la natura erano i depositari più sensibili dei valori umani e cristiani – alcuni si alzavano dal letto anche alle quattro pur di prendervi parte. Allora nelle contrade rurali non vi erano macchine; in realtà non vi erano nemmeno strade e dalle campagne di Cerzete, San Gregorio, Cerza Grossa, Casa Spaccata, Castello, bisognava scendere a piedi per mulattiere e sentieri in terra battuta e il più delle volte nel fango e nella neve. Ma partecipare alla Novena significava per i più anziani oltre che un atto di fede quasi un obbligo, per i giovani e i ragazzi rappresentava anche un passatempo. Vi era l’abitudine di suonare ai pochi campanelli dei palazzi che si incontravano lungo la strada per svegliarne gli abitanti. Un altro svago era quello di sparare: si sparava nei modi più diversi oltre ai tracchi, alle cipolle e alle botte a muro un modo molto diffuso era lo sparo con il “maschio”. Nella versione più semplice il maschio era una grossa chiave, quella delle vecchie serrature artigianali, munita alla punta di un foro in cui veniva inserito un piccolo quantitativo di polvere di potassio – venduta in farmacia –; la polvere veniva compressa da uno spinotto introdotto nel foro, e le due parti erano tenute assieme da un filo metallico o da una cordicella che fungeva da manico. Una volta inserita la polvere e lo spinotto, con un movimento oscillante si batteva quest’ultimo contro una pietra d’angolo delle vecchie case e, grazie alla forte compressione, si riusciva ad ottenere un notevole scoppio. È chiaro che quanto più grande era la chiave, più polvere poteva contenere e più grande era il botto. Per questo con il tempo il modello si era evoluto: al posto della chiave veniva usata una chiavarda – asportata dai binari della linea ferroviaria per Rocchetta – o un robusto pezzo di ferro quadrato. A praticare il foro era uno dei tanti fabbri che vi erano ad Atripalda. Quando per una dose eccessiva di polvere il maschio si squarciava, la paura era tanta, anche se a quei tempi erano numerosi i giochi pericolosi organizzati dai ragazzi, che farebbero accapponare la pelle ai genitori di oggi.

Ritorniamo a Zì Minco: il momento più commovente e più coinvolgente era la mattina della vigilia di Natale, quando durante la Novena accanto al suono dell’organo - la chiesa di S. Maria delle Grazie aveva prima del terremoto un discreto e pregevole organo settecentesco - e ai canti dei padri francescani che venivano dal convento di Serino, Zì Minco e il suo collaboratore intonavano “ Tu scendi dalle stelle”, e allora si levava dalla chiesa appena rischiarata dalla luce dell’alba un coro poderoso che librandosi nell’aria si diffondeva per tutto il centro antico. Il Natale in cui non si vide più arrivare Zì Minco, può sembrare strano, fu per tanti atripaldesi un Natale diverso, la cui mestizia fu mitigata solo dal pensiero che da quel momento in poi Zì Minco avrebbe suonato “Tu scendi dalle stelle” direttamente in Paradiso.

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