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Corsi e… ricorsi

La “buccia di banana” delle quote rosa e la tentazione dell’aumento delle indennità

I risultati potranno, un giorno, anche arrivare (e tutti se lo augurano nell’interesse della città), per meriti propri del sindaco e della attuale maggioranza o per fortunate coincidenze, ma il senso di delusione che si registra di fronte ad alcuni episodi certamente non potrà essere cancellato tanto facilmente.

Con una decisione a dir poco discutibile, infatti, la giunta comunale ha deciso di resistere nel giudizio davanti al Tar di Salerno promosso dal consigliere Ulderico Pacia per violazione dello Statuto comunale e dei principi costituzionali sulle pari opportunità commessa dal sindaco nella composizione della giunta comunale. Il primo cittadino, infatti, nel nominare gli assessori, ha tenuto conto esclusivamente dell’appartenenza politica e dei voti ottenuti, ignorando il principio, confermato a tutti i livelli, che almeno uno dei nomi avrebbe dovuto essere quello di una donna. Il sindaco, in pratica, avrebbe dovuto nominare una delle due consigliere Aquino o Scioscia oppure rivolgersi all’esterno del Consiglio comunale atteso che, in sede di formazione della lista, solo 4 su 17 candidati erano di sesso femminile, due delle quali (Coppola e Stefanelli) non sono state elette. La questione in sé potrebbe anche essere considerata di poco conto rispetto ai problemi reali della città e, dunque, ridimensionata al rango di piccolezza (bisognerebbe, però, prima essere certi che anche per le donne sia davvero così, partendo comunque dal presupposto che una violazione dei principi costituzionali sia una piccolezza), tuttavia è impossibile ignorare una serie di elementi che suggeriscono di non trascurare il caso. Intanto, perché da un sindaco nuovo e giovane, che in campagna elettorale ha “sposato” la causa delle donne in politica, ci si aspettava che nel primo atto di una certa responsabilità vi fossero elementi di novità vera e non decisioni di convenienza e alla portata di chiunque.

Ma la “dimenticanza”, se tale la si vuole definire accordando il beneficio del dubbio, diventa un pessimo segnale nel momento in cui il sindaco, di fronte ad un ricorso eticamente prima che giuridicamente sacrosanto, anziché prendere la palla al balzo e ritornare sulla propria decisione, costringendo i partiti a farsene una ragione, in solido con la giunta, trascina il Comune in un contenzioso stucchevole (e la casistica del genere non lascia dubbi), impegnando anche la somma di circa 2.500 euro del bilancio comunale per la parcella dell’avvocato.

Fortunatamente, però, ed è proprio il caso di sottolinearlo, sembra che gli assessori siano quantomeno sfuggiti (almeno per ora) alla tentazione di aumentarsi al massimo l’indennità di funzione. A quanto pare l’ipotesi è stata considerata alla luce dello “sbilanciamento” fra dare (tempo) ed avere (euro) che caratterizza, ad Atripalda, la gestione della cosa pubblica. Meglio così, perché per un Comune sull’orlo del dissesto già i cinquantamila euro all’anno (pari a mezzo punto di addizionale Irpef) che la giunta percepisce, di cui almeno un terzo se ne va in tasse, appare un lusso insostenibile più che un costo ineludibile.

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