Sabato, 20 Apr 24

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Amarcord di un giovedì

Le scelte dettate dall'urgenza non risolvono il problema del mercato

Fino a non molto tempo fa per Atripalda, per i paesi del circondario, e anche oltre, dire “giovedì” significava dire “mercato”. Tanto famoso e importante era questo appuntamento, che molte fonti documentali riportano la nostra cittadina come la piazza in cui venivano fissati i prezzi di molti generi per il territorio provinciale e non solo. Ancora negli anni ’80 era considerato il secondo mercato di bestiame del meridione dopo quello di Nola, per l’alto numero di transazioni finanziarie che vi erano effettuate. Il giovedì era considerato quasi un giorno di festa dagli atripaldesi e dagli avventori dagli altri comuni, tanto variopinta e gioiosa era la sua presentazione. Una bella pagina descrittiva di colori e voci che ci riportano indietro nel tempo ci venne offerta da Ciro Cannaviello, apprezzato giornalista atripaldese che ne descrisse l’atmosfera poi riportata da Sabino Tomasetti nel suo Frammenti di vita sul Sabato. Quanto quest’atmosfera speciale si sia irrimediabilmente persa è sotto gli occhi di tutti. Oggi, tra gli operatori, si riscontra rassegnazione e mestizia e l’acquisto è diventato  una pratica abitudinaria tra i frequentatori.

Le mie personali considerazioni in proposito cercano di evitare di scadere nel provincialismo insito in chi scrive delle piccole cose del suo paese senza inserirle in un contesto opportuno. Scrivere del mercato di Atripalda è rilevante perché attorno ad esso è girata, e per alcuni versi continua a girare, l’economia cittadina. Lo spunto è in questo caso dettato dalla recente proposta avanzata dall’Amministrazione comunale di riportare il mercato nel centro di Atripalda. In effetti, da quando a causa del rifacimento di p.zza Umberto I si rese necessaria la sua delocalizzazione prima a c.da Santissimo e poi nella sede attuale di Parco delle Acacie-Via S. Lorenzo, una parte della popolazione ha reclamato, attraverso un referendum consultivo e gli interventi di autorevoli personaggi politici, il ritorno in piazza. Il mercato per come l’abbiamo conosciuto dalla fine degli anni ’50 presentava in realtà una sua razionalizzazione degli spazi che era sicuramente frutto dell’esperienza accumulata in tantissimi anni. Le zone interessate erano: l.go Fiumitello, via Aversa, via Fiume (senza il prolungamento di via Gramsci), p.zza Di Donato, p.zza Tempio Maggiore, p.zza Garibaldi (su uno spazio inferiore a quello attuale), i ponti sul Sabato, l.go Tigli, p.za Sparavigna. A quei tempi si trovavano prodotti che a volte era difficile reperire negli usuali negozi, considerato che pochi erano gli altri mercati nei comuni circostanti; oggi anche questa funzione si è ridotta, così come si è ridotta la funzione calmieratrice dei prezzi. Vi erano tutte le condizioni per un polo commerciale attrattore che generava un notevole indotto sul commercio all’ingrosso e sui servizi che la città offriva. Oggi tutto questo è stato ridimensionato per fattori contingenti e per la mancanza di lungimiranza politica. Il problema è proprio questo: non si potrà mai trovare una soluzione realmente definitiva a questo problema fino a quando si ragionerà soltanto in un’ottica emergenziale, senza una progettazione previdente e consapevole che rilanci il ruolo del mercato. La stessa delocalizzazione è stata frutto di scelte dettate dall’urgenza, prima per i lavori che interessavano la piazza, poi per le proteste degli abitanti di c.da Santissimo (in quest’ultimo caso l’assenza di servizi igienici è sembrata più un pretesto che una causa reale). L’unica proposta, caduta nel vuoto, fu quella del sottoscritto, che tre anni fa riteneva che il Parco delle Acacie, previo prolungamento verso c.da Spagnola, potesse accogliere l’intero mercato. Oggi questo non è più possibile, poiché sul terreno che costeggia il torrente Rigatore sono sorte una miriade di piccole costruzioni. La scelta annunciata di un ritorno al centro che esclude l’utilizzo della piazza, se non ben ponderata sotto tutti gli aspetti, potrebbe a questo punto rivelarsi il colpo finale per una tradizione secolare.

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