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La nobiltà del baccalà

La storia di un alimento che ha fatto grande il commercio atripaldese

Biagio Venezia

Il rilancio delle risorse della gastronomia locale può rappresentare una rilevante opportunità non solo di crescita economica, ma anche di sviluppo culturale e sociale. E’ per questo che nello scorso intervento avevo proposto tra l’altro di rilanciare la sagra del baccalà come occasione per rinnovare un’antica tradizione. Atripalda ha sempre rivestito un ruolo centrale nella diffusione di tanti prodotti culinari e commerciali in ambito provinciale e anche per quanto riguarda un prodotto particolare come il baccalà. Eppure questa mia proposta ha fatto storcere il naso a più di qualche amico, per aver dato tanta centralità a un piatto “povero”. E allora, sempre più convinto del ruolo che questo alimento ha avuto e in parte può avere ancora oggi che è diventato da pietanza povera una vivanda pregiata, con la maggiore sintesi che mi è possibile, vorrei tessere un vero e proprio elogio del baccalà. Per fare questo elogio partirò dalla storia.

Verso il 1400 i pescatori baschi dediti alla caccia delle balene si trovarono nel Mare del Nord di fronte a quantità enormi di merluzzo e pensarono di conservarlo alla maniera della carne di balena, ossia attraverso una corposa salagione. Questa metodologia di conservazione ha reso possibile la diffusione di un prodotto che è diventato nutrimento universale sfamando eserciti, naviganti, schiavi, intere popolazioni delle zone interne che altrimenti mai avrebbero potuto mangiare pesce di mare. Questo alimento ha rivestito un ruolo importante anche nello sviluppo delle colonie inglesi degli Stati Uniti: i Pilgrim Fathers, i padri pellegrini, sbarcarono nel 1620 con la Mayflower su di un promontorio che aveva un nome che era tutto un programma, Cape Cod (Capo Merluzzo). Quei mari si rivelarono una miniera d’oro, perché contrariamente a quanto molti ritengono i padri pellegrini non scelsero come attività economica l’agricoltura bensì la pesca; le navi piene di baccalà partivano dal New England dirette ai Caraibi con destinazione finale il Portogallo: i portoghesi lo scambiavano nelle colonie addirittura con gli schiavi. Così importante era il ruolo di questo alimento da provocare continui scontri tra le navi inglesi e i pescherecci americani che si dotarono addirittura di cannoni. Più di qualche storico ipotizza che nell’ostilità tra l’Inghilterra e la sua ex colonia d’oltremare anche la pesca del merluzzo divenne una delle ragioni che portarono alla guerra d’indipendenza.

Oltre che nella storia, il baccalà ha una sua presenza peculiare anche nella letteratura: da Rabelais a Gautier, da Eduardo a Vàzquez Montalban – col mitico personaggio di Pepe Corvalho – bene è stata illustrata la nobiltà di questo alimento. E non dimentichiamo la musica, per esempio quella di Paolo Conte con la sua ‘Pesce veloce del Baltico’.

Ma passiamo dal contesto generale a quello particolare della nostra Atripalda. Questo elogio, infatti, oltre che su sommarie ragioni storico-culturali, si fonda sulla microstoria della nostra cittadina, che ha visto, fino agli anni settanta del secolo scorso, il baccalà essere un piatto molto diffuso tra il ceto popolare, considerato soprattutto il fatto che esso costava meno della carne. E allora si presentano dinanzi agli occhi ricordi d’infanzia incancellabili, perché legati a una dignitosa modestia, quale era quella della maggior parte degli impiegati, operai e sottoccupati di allora. I ricordi vanno alla quarta settimana - anche allora era presente il problema per i salariati di arrivare alla fine del mese -, quando si cercava di lesinare sui pochi soldi rimanenti e si ricorreva, specialmente per la cena, alle uova fritte, e soprattutto al baccalà. L’acquisto del baccalà ‘sponzato’ non si riferiva a un intero pezzo ma a parte di esso, così come avviene oggi per la carne bovina o di maiale. Presso gli appositi negozi che vendevano al dettaglio soltanto baccalà era possibile ordinare ‘scelle e panzette’, quella che era la seconda scelta rispetto al filetto. La fantasia delle nostre madri, poi, attingendo all’immenso ricettario con al centro questo pesce, faceva il resto. I commercianti grossisti di Atripalda rifornivano di questo alimento l’intera provincia nonché parte della Basilicata e i primi lembi delle Puglie. Ricordiamo i Parziale, i Maffei, gli Spina, i Nazzaro come un punto di riferimento di tale commercio. Più di uno erano i punti di vendita al dettaglio: Elvira, Ciccio, Ida, Sabino sono nomi che fanno parte della memoria collettiva. Per comprendere quanto il baccalà fosse al centro del commercio atripaldese, basti pensare che tanta era la quantità che veniva smerciata che i ‘focaroni’ della festività di San Sabino di febbraio, quelli di via Aversa, p.zza Di Donato, via Tripoli, via Fiume, erano alimentati con il legno delle casse in cui esso arrivava. La nostra città può fregiarsi di un merito: quello di aver contribuito a diffondere questo alimento così importante, a testimonianza di una vocazione commerciale antica di secoli, durante i quali, vincendo la natura selvaggia, prima dell’avvento dell’auto, su carretti che percorrevano strade malapena sterrate ha costruito la grandezza del suo commercio. Anche in questo caso un sapore che diventa sapere.

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Commenti  

 
#1 Antonio 2013-11-27 18:19
Non avevo mai pensato alla "nobiltà" del baccalà! Davvero tantissimi complimenti all'autore per questo bellissimo articolo.