Giovedì, 28 Mar 24

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Lassù sulla collina

Il ticchettio del picchio ed il canto dell’usignolo sono suoni che solo nel parco pubblico possiamo ascoltare. La lunga storia della pineta "Sessa"

Il parco pubblico

Con questo scritto iniziamo un percorso che ci condurrà in una parte rilevante del patrimonio pubblico della nostra città, ovvero sulla collina di San Gregorio. Negli ultimi tempi si sta manifestando un rinnovato interesse, generato più che altro da sincera preoccupazione, anche da parte di giovani atripaldesi, per le sorti del nostro parco pubblico, conosciuto ai più anche con il nome di “Pineta Sessa”. Chi ha un’età inferiore ai cinquant’anni è portato a considerare che quella che oggi si presenta come una pineta sia una realtà antica, ma in effetti non è così. La zona, comprese le due aree che si incontrano sulla parte sinistra della strada e che appartengono a privati, è stata, fino al mese di ottobre 1991, proprietà della famiglia dei notai Sessa. Fino agli inizi degli anni ’60 l’attuale area del parco pubblico era suddivisa in quattro masserie caratterizzate da un microclima particolarmente favorevole e da un terreno generosamente fertile data anche la notevole presenza di acque. Nei pressi del primo casolare che si incontra salendo da Atripalda si trovavano tre fontane a vasca: la fontana dei Lauri, delle Canne, della Selva. In altri due casolari vi erano pozzi, il quarto si trovava presso le sorgenti dell’acquedotto del Braione. Dal 1756 fino ai primissimi anni del novecento, l’“acqua del Braione” – così denominata per il cognome di un coniuge di casa Sessa – ha costituito il primo acquedotto pubblico di Atripalda, in seguito abbandonato a favore di quello del Serino. La sola acqua del Braione, che nel 1978 aveva ancora una portata di 1,5 l al secondo, era canalizzata in un primo tratto in un cunicolo, nella maggior parte attraverso un tubo zincato di 120 mm che serviva ad alimentare 14 fontane più le due vasche che si trovavano nel largo dei Tigli dell’attuale piazza Umberto I, costruite con i materiali ricavati dalla fontana circolare situata al posto del monumento ai Caduti. Date le condizioni ideali del microclima presente, i proprietari e poi i coloni che si sono succeduti avevano sviluppato la propensione, accompagnata anche da una profonda passione, a piantare qualsiasi tipo di alberatura e di arbusti. Sui viali che portavano dalla strada pubblica, Pietramara e S. Gregorio, che allora era poco più che una cupa larga quanto una “coppia di somari affiancati,” era presente una siepe di Mortarella, della quale è rimasto qualche esemplare ultracentenario. Ma quello che caratterizzava maggiormente la flora erano gli alberi da frutta cui mi limiterò a citare quelle varietà e quei sapori che sono ormai scomparsi nelle nostre zone, e l’elenco, sebbene incompleto, non sarà breve. Per le pere vi si trovavano le qualità di Mastantuono, Spina, Sorba e del Rosario; per le mele Limoncella, Renetta, Banana e Cap’e ciuccio; per le ciligie Maiatica e San Pasquale; per l’uva – insieme a quella adatta alla vinificazione in prevalenza Aglianico e Sciascinoso – vi era quella da tavola: Moscatella, Cornicella e Menna ’e Vacca; per le nocciole Camponica, Rossa, Sant’Anna; oltre al gelso bianco e nero, la prugna Coglipiecori, la nespola germanica, la pesca cotogna, il fico gigante dei Zoccolanti – il nome curioso è spiegato non solo dalla straordinaria grandezza del frutto, ma principalmente dal fatto che da esso si ricavasse il legno per la realizzazione degli zoccoli.

Il sapore è uno dei sensi più sviluppati nell’ambito della memoria. Ricordiamo le celeberrime madeleines di Proust: un assaggio capace di ricatapultarci, quasi ai limiti del sogno, in un mondo di sensazioni e impressioni lontane del nostro passato. Con questo spirito per molti anni mi è capitato di ricordare di mangiare un frutto particolare, di colore verde e di forma oblunga, che mi veniva offerto dal nonno materno, un frutto dal sapore dolce ma molto intenso e non esagero col dire che tanto forte era il ricordo da sentire ancora il sapore che rimaneva in bocca. Per anni ho cercato quel frutto anche quando occasionalmente mi trovavo a Napoli, fermandomi ad osservare presso rivenditori di frutta esotica se ne riconoscessi la forma. Nulla. Nel 1992, dopo l’acquisizione della pineta da parte del Comune, mentre seguivo i lavori di sfrascamento degli operai della forestale in qualità di delegato al verde pubblico, venne fuori una pianta con dei fiori esternamente bianchi e rosso-violacei all’interno e riconobbi la pianta del frutto che frequentemente ricordavo: era un Guaiabo del Brasile, ancora presente sul lato sinistro del primo casolare, mentre un altro della stessa specie che si trovava sul lato opposto è da tempo rinsecchito.

Notevole nel parco pubblico era la presenza di piante aromatiche e medicamentose, di cui i contadini conoscevano in maggior parte gli effetti e pertanto potevano usarle seppur con cautela e cognizione, poiché molte di esse sono velenose, sia per insaporire i cibi che per curare svariati disturbi o vere e proprie patologie. Oltre alla flora importante era la fauna da allevamento. Anche in questo caso come per le piante, accanto a quella tipica dell’economia agricola vi erano delle specie particolari: quelle che maggiormente ricordo per la loro bellezza sono le galline faraone e un mirabile pavone che era un po’ permaloso e scostante, ma quando mostrava la sua ruota riusciva a incantare. Il tempo della quotidianità era scandito e regolato dal ciclo naturale e dai lavori – dalla semina al raccolto – che a esso corrispondono. Erano lavori pesanti per i quali era necessario il supporto di altri contadini che venivano retribuiti tramite lo scambio di giornate: una sorta di banca del tempo ante litteram. La potatura delle viti, la zappatura, la mietitura, la “sverza” del granoturco erano attività che venivano svolte da un folto numero di persone nell’arco temporale previsto. Alla fine di questi lavori era consuetudine che il beneficiato offrisse un corposo pranzo definito “capocanale”, una partita di giro che coinvolgeva in pratica tutti. Alcune attività dovevano essere necessariamente svolte all’aperto e in questo caso assumeva un ruolo importante l’aia che era, ed è, uno spiazzo pavimentato in calcestruzzo dal diametro variabile in base alla grandezza della masseria. Nella nostra pineta è presente davanti al capanno in alto, che oggi ha la forma di una cappella, rispetto al sentiero principale un’aia in mattoni pieni che ne testimonia l’antichità rispetto alle altre realizzate in calcestruzzo e quindi più recenti. Una cosa da poco ma che andrebbe maggiormente tutelata perché è l’unica di questo tipo rimasta nelle nostre zone anche rispetto ai comuni vicini. Sull’aia veniva espletata l’essiccazione del fieno e della frutta, la cernitura dei legumi e dei cereali, ma principalmente essa era il luogo principale dove avveniva la trebbiatura del grano, dell’orzo e della segale che, prima dell’introduzione del motore a scoppio delle prime trebbiatrici, veniva effettuata per battitura, tramite la cosiddetta “scogna”. La battitura si eseguiva tramite una pertica alla cui sommità era ancorato con una striscia di pelle, che ne assicurava lo snodo, un robusto tronchetto di circa un metro di lunghezza: tale strumento, chiamato “ó úvillo”, veniva sbattuto ritmicamente sui fasci di grano e altri cereali e liberava il seme dall’involucro.

Si provi a immaginare la fatica e la stanchezza dopo una giornata di un lavoro del genere, ma l’aia era anche un luogo di svago e di convivialità essendo deputato alle feste e alla celebrazione di ricorrenze, per esempio battesimi, fidanzamenti, matrimoni, ecc. In tali occasioni, durante il ballo si rompeva l’implicita separazione tra uomini e donne che non fossero congiunti. I balli tipici delle nostre contrade erano la tarantella, il valzer, la polka e la quadriglia. Il più diffuso dalle nostre parti non era, come si potrebbe ritenere la tarantella, ma la quadriglia e in special modo nella versione comandata. La quadriglia comandata era eseguita da coppie di uomini e donne e seguiva un preciso cerimoniale: il maestro che comandava, sulle note dell’organetto a due o quattro bassi (qualche volta con l’accompagnamento di una chitarra) o riprodotte attraverso un grammofono a manovella, si esprimeva in dialetto condito da un francese maccheronico. Chi comandava la quadriglia diventava parte integrante del ballo perché nella fase finale, con occhio attento e tempismo, dopo l’ultimo comando “Attention danser” sceglieva una delle ragazze per farle da cavaliere escludendo quello che era stato il compagno di ballo dell’intera serata e condizionando in questo modo l’esito finale che prevedeva la vittoria di un’unica coppia. Chissà quanti amori sono nati e quante famiglie si sono formate attraverso quei balli. Oltre alle feste organizzate dai coloni, vi erano anche quelle volute dai proprietari: a tal proposito ricordo Amerigo Piccioni, maestro concertatore e affermato direttore di banda, doppiamente imparentato con la famiglia Sessa, che in più di qualche occasione, dopo il sontuoso banchetto consumato su lunghe tavolate che partivano dal primo casolare e arrivavano fino all’aia, approfittando della presenza dei solisti che l’accompagnavano, si dilettava a dirigere e comandare egli stesso la quadriglia.

Ricordi del passato che continuamente si intrecciano con episodi del presente. Mi fa piacere fare un riferimento anche a quel grosso rudimentale tavolo in pietra che si trovava dinanzi al primo casolare che, per essere preservato, venne portato presso “a preta rà Maronna”, ove attualmente si trova e funge da altare, mentre sul basamento è collocata la statua della Vergine di Lourdes. Questo spostamento avvenne per motivazioni conservative, ma è importante evidenziare anche il significato altamente simbolico che esso, grazie a questa nuova collocazione, di fatto acquista: è bello pensare che quella pietra, oltre a essere ispirazione di sentimenti religiosi, sia anche intrisa del sudore della fronte di tante generazioni di contadini.

Gli inizi degli anni ’60 rappresentano uno spartiacque per la debole economia agricola meridionale e maggiormente per quella delle zone interne, la cosiddetta “terra dell’osso”, secondo la definizione di M. Rossi Doria. Il benessere borghese che pervade quegli anni, dopo la miracolosa ricostruzione post-bellica, paradossalmente aggrava le condizioni del mondo contadino. La società patriarcale entra in crisi, le braccia per il lavoro, tanto auspicate specialmente quelle maschili, che erano state una risorsa fino ad allora, diventano un peso insostenibile per la tipologia della nuova famiglia agraria che sostituisce il patriarcato. E anche per questo si ritirano fuori le valige di cartone, si riaffollano i treni dell’emigrazione, cambia solo la destinazione: non più le Americhe ma la Germania, la Svizzera, il Belgio, le città industriali del nord, che diventano l’approdo per migliaia di giovani (il “Fiat-Nam” raccontato da Ettore Scola nel film “Trevico-Torino”). Le nostre campagne non sfuggono a questo fenomeno: la famiglia Sessa coglie l’occasione offertagli dal Corpo Forestale dello Stato per affittargli le quattro masserie di cui abbiamo parlato negli scorsi articoli. Un’operazione che prevede una svolta radicale per quelle zone: scompaiono le masserie, i venti ettari d’estensione diventano una sola cosa, comincia un’opera di forestazione con la messa a dimora di migliaia di pini di quasi tutte le varietà. In un primo momento la scelta della forestazione era apparsa incomprensibile per una zona che presentava un microclima favorevole; essa tuttavia si spiegava con la necessità di proteggere fisicamente e non solo a livello di vincolo legislativo il bacino idrogeologico esistente. Dopo venticinque anni quella che oramai a tutti gli effetti era diventata una pineta fu restituita al notaio Vincenzo Sessa con una serie di obblighi. Il notaio decise di vendere una proprietà che era profondamente cambiata rispetto alla sua natura originaria, la zona sulla sinistra salendo venne acquisita per una parte da un noto sodalizio e per un’altra da un altrettanto noto costruttore. Alla fine degli anni ’80 venne presentata al Sindaco e per conoscenza al Consiglio comunale una lettera aperta sottoscritta dal notaio e dal costruttore che trattava “Sulla opportunità di individuare una zona a destinazione turistica in località San Gregorio-Pietramara (fondo Sessa)”. Nella lettera aperta si legge la seguente proposta: “…Quindi la superficie da destinare alle residenze turistiche sarebbe all’incirca di 90.000 mq.. In termini edilizi ciò significa poter realizzare circa 150 unità da 600 mc…”. Contestualmente nella primavera del 1990, un’associazione ambientalista segnalò al comune un grosso taglio di alberi proprio nella pineta, che ne comprometteva l’assetto boschivo, e l’Amministrazione del tempo, Giunta Piscopo, intervenne in modo radicale conferendo all’Ufficio Tecnico Comunale l’incarico di redigere una variante al P.R.G. che destinava l’area a “Parco Pubblico”. La situazione che si era creata generò un serrato dibattito che seguì quello generato dalla scomparsa della collina di Alvanite per effetto della costruzione dei 303 alloggi destinati ai terremotati del 1980. Dinanzi all’ipotesi dell’urbanizzazione di un’altra collina, già interessata dall’espansione entro i limiti degli indici di costruzione per i terreni agricoli, si realizzò una maggioranza favorevole all’acquisto da parte del Comune. Ciò avvenne il 15 novembre 1991 per una cifra di 850 milioni di lire. Dopo l’acquisto iniziarono subito i lavori in economia per attrezzare una parte della superficie e un notevole impegno venne profuso dagli operai del comune (ex netturbini), da una squadra di braccianti della forestale e da diversi volontari. Su una superfice di circa ventimila mq. vennero recuperate le fontane a vasca ricadenti nella proprietà comunale, la concimaia e l’aia, vennero altresì costruiti diversi arredi come tavoli, panchine, qualche gazebo, alcune voliere sui pini domestici, il tutto con un costo irrisorio di qualche milione di lire. Il 19 giugno del 1993 venne ufficialmente inaugurato dall’attuale Presidente della Repubblica, allora Presidente della Camera dei Deputati, on. Giorgio Napolitano il Parco Pubblico di S. Gregorio-Pietramara. Nei primi anni dopo l’acquisto il parco è stato frequentato specialmente nei weekend da numerose famiglie, non solo di Atripalda, in cerca di refrigerio e di tranquillità. In quegli stessi anni ha ospitato manifestazioni musicali di buon livello organizzate da associazioni giovanili e divenne meta costante di scolaresche.

Dalla fine degli anni ’90 inizia per il Parco Pubblico un periodo di oblio e di conseguente degrado: avanzando, il sottobosco si riappropria dei propri spazi e trasforma lo scenario da accogliente a quasi avverso. Nel 2005 il presidente dell’Amministrazione provinciale, l’on. Alberta De Simone, in una prospettiva di rilancio investe alcuni milioni di euro, utilizzati per la realizzazione dell’intera recinzione, per ricavare nuovi sentieri e collocare parchi giochi per bambini. Purtroppo anche questa fase favorevole dura poco: ritorna nuovamente il degrado nell’indifferenza delle Amministrazioni comunali e sovracomunali. Nel corso degli anni successivi non sono mancate le proposte di riqualificazione dell’area: accanto a quelle a volte fantasiose e quasi sempre strumentali, formulate da vari esponenti politici per esigenze di visibilità, vi sono state anche proposte più concrete e fattibili.

In realtà, già subito dopo l’acquisto fu richiesto ad associazioni ambientaliste di livello nazionale la redazione, a costo zero, di progetti di massima che valorizzassero la Pineta. Le idee più interessanti riguardavano: 1) la realizzazione, in una conca quasi naturale, di un laghetto per pesca sportiva utilizzando le acque del Braione che si sarebbero poi sversate nel vallone Testa, che a sua volta confluisce nel Salzola ad Acquachiara; 2) un campo regolamentare omologato per permettere lo svolgimento di gare nazionali di Tiro con l’Arco, da realizzare sul lato di S. Gregorio dove si trova una zona pianeggiante adatta allo scopo; 3) un circuito per gare di corsa campestre e, coinvolgendo un’area più vasta, un percorso per gare di livello federale di ciclocross, che avrebbe comportato anche il recupero delle vecchie strade comunali. Quando furono pensate, queste iniziative si basavano sulla possibilità per il Comune di intervenire con un budget di spesa limitato, poiché esse prevedevano l’affidamento per la gestione a organizzazioni sportive di livello nazionale. Sulla base della recente affermazione di strutture per il Bed and Breakfast (pernottamento e colazione) si potrebbe ipotizzare – qualche sommessa proposta è stata anche avanzata in tal senso – il recupero o l’accorpamento delle volumetrie dei casolari esistenti (ormai diruti) per renderli adatti a questo nuovo tipo di attività, traendone benefici economici. Spingendosi oltre non mancherebbe la fantasia: perché non ipotizzare la possibilità di creare una struttura sanitaria diurna, anche privata ma convenzionata con il SSN (Servizio Sanitario Nazionale) per le cure riabilitative attraverso un centro di Ippoterapia e di Tecniche di respirazione e meditazione? Una struttura di tale genere, molto innovativa, dovrebbe superare le difficoltà relative alla viabilità per il periodo invernale, mentre come aspetto positivo avrebbe la migliore collocazione possibile all’interno di un ampio polmone verde lontano dall’inquinamento cittadino.

Negli ultimi anni l’associazione no-profit “La Verde Collina”, sorta per la tutela delle bellezze ambientali delle zone rurali, ha richiesto più volte al Comune di poter avere in concessione il Parco pubblico. Nel 2010 il Comune concesse all’associazione la manutenzione del sottobosco per un breve periodo, ma alla scadenza la concessione non fu rinnovata. Un comportamento alquanto strano; per un minimo di documentazione sono andato a rivedere le iniziative che negli anni hanno interessato il parco. Nel luglio del 2008 un consigliere dell’opposizione presentò al Sindaco pro-tempore un’interrogazione urgente relativa alla raccolta dei rifiuti solidi urbani disseminati nelle piazzole della pineta per consentire la “pulizia del Parco pubblico” all’associazione “Verde collina”, chiedendo con quali iniziative e in quali tempi il parco venisse sgomberato dai rifiuti. Oggi il consigliere è Assessore all’Ambiente e da oltre un anno la pineta è diventata un ricettacolo di rifiuti non solo urbani ma nocivi e pericolosi (a tal proposito vi è una corposa documentazione fotografica). Viene spontaneo, senza intento polemico e anche senza interrogazione, rivolgergli la richiesta di impegnarsi per le stesse cose che lui reclamava cinque anni fa. La gestione del parco, anche in modo minimale, non è poca cosa: è un vero e proprio obbligo civile arrivare a delle conclusioni per una sua fruibilità sociale. Per questo un plauso merita quel gruppo di giovani che ultimamente ha riproposto il problema e che per il consenso ricevuto continua a sensibilizzare l’opinione pubblica. Non si scoraggino: troveranno un’infinità di ostacoli e certamente non basterà qualche iniziativa simbolica, come quella della giornata ecologica, anzi è più probabile che di fronte a una debole risposta da parte dell’opinione pubblica venga avanzata – considerati i problemi finanziari del Comune e la necessità di fare cassa – la deleteria proposta di una parziale vendita con relativo cambiamento degli indici di costruzione. Una cosa è certa: quello che era valido venti anni fa, quando la Pineta fu acquistata, lo è ancora di più oggi. Un’eventuale urbanizzazione sarebbe uno sfregio irreparabile a una città con la più alta densità abitativa della provincia e al suo assetto paesaggistico già seriamente compromesso. Credo che i giovani che hanno “riscoperto” la pineta abbiano ascoltato nel loro passeggiare tra gli alberi il ticchettio del picchio e il canto dell’usignolo, dell’upupa, dell’oriolo e del cuculo, che chi si inoltra in quei sentieri può avere la fortuna di sentire. Una sinfonia di suoni che si diffondono nell’aria salubre: la difendano.

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