Martedì, 14 Mag 24

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La vera storia del “Volto Santo”

Minuziosa ricostruzione del fenomeno dell’immagine di Cristo sanguinante che sconvolse Atripalda mezzo secolo fa, dividendo l’opinione pubblica in scettici e credenti, definito dalla Chiesa “non soprannaturale” ma che ancora oggi genera domande senza risposte

Donne in preghiera davanti all'immagine di Cristo

Sul finire degli anni ’50 ad Atripalda avvenne una vicenda che ebbe una certa risonanza. Una vicenda delicata che sembra caduta nel dimenticatoio, se non addirittura rimossa. È una cosa che capita spesso, più di quanto si crede e sui più disparati argomenti. La nostra città, come già scritto in altre occasioni, sta attraversando una delle fasi particolari della sua storia millenaria. Nell’ultimo mezzo secolo ha visto la sua popolazione crescere in misura sostanziale, interessata da un fenomeno immigratorio legato alla sua espansione urbanistica e alla vicinissima presenza del nucleo industriale di Avellino. Attualmente la popolazione residente da meno di tre generazioni è ampiamente maggioritaria, e questo ha causato una perdita d’identità e la quasi scomparsa della memoria collettiva. Questa situazione spinge, anche se in modo diverso, alcune componenti della società a cercare di ritrovare un senso di appartenenza legato al luogo. Si tratta di un fenomeno non appariscente, ma che interessa principalmente le nuove generazioni, particolarmente sollecitate dall’avanzare della società globale. Anche per questo motivo la riproposizione di storie dimenticate o rimosse può essere d’aiuto alla ridefinizione del ‘senso del luogo’. È questa una breve considerazione per far comprendere lo spirito del presente scritto, che per il suo contenuto potrebbe suggerire anche diverse interpretazioni. Personalmente credo che quando si trattano argomenti delicati e controversi bisognerebbe farlo con metodi storiografici, controllando bene le fonti. Questo scritto si basa invece su ricordi personali, su fatti riportati da altri - cui va un ringraziamento -, da notizie riprese dalla stampa dell’epoca, dal ricordo di protagonisti diretti, e non ha nessuna pretesa se non quella riportata in premessa.

Nella chiesa del convento di San Giovanni Battista sulla collina che sovrasta la piazza di Atripalda, popolarmente definito di S. Pasquale, si trova una cappella cui si accede attraverso la sagrestia posta sul lato destro del presbiterio, denominata del Volto Santo a testimonianza del particolare culto che i frati francescani hanno sempre avuto per l’immagine del Redentore. Le figure centrali della vicenda che mi accingo a narrare sono rappresentate da un frate che ha dimorato per alcuni anni nel suddetto convento (padre Bonaventura Martignetti - da non confondere con un suo omonimo nato a Montefalcione (Av) nel 1864 e deceduto nel 1933 a S. Giorgio del Sannio) e dalla sig.ra Marietta Di Marzo Belli, ultima discendente di un’importante famiglia gentilizia atripaldese, nata a S. Felice a Cancello (CE) il 14 settembre 1902 e deceduta ad Atripalda il 26 agosto 1965. Il 18 dicembre del 1958 padre Bonaventura donò alla sig.ra Belli, che notoriamente era una benefattrice del convento, un’effige del Sacro Volto ricavata da una litografia su negativo realizzata dal fotografo Enrico De Napoli. Prima di proseguire nella narrazione credo sia utile, per una migliore comprensione dei fatti, definire i profili di questi due personaggi. Padre Bonaventura prima di giungere ad Atripalda aveva soggiornato ad Airola, in provincia di Benevento, dove aveva conosciuto la serva di Dio Maria Concetta Pantuso (3/2/1894 – 27/3/1953), protagonista di fenomeni fuori dell’ordinario. Era affetta da stimmate in forma di ferite, e oltre a ciò si verificava l’apparizione di sangue umano su immagini sacre da lei possedute. Il 17 febbraio del 1947 un’immagine del Santo Volto sindonico emanò sangue, fenomeno che si rinnovò il 28 febbraio e il 4 marzo dello stesso anno. Il Volto Santo, tre volte sanguinante, è stato custodito per 13 anni presso Mons. Ilario Roatta, vescovo della diocesi di S. Agata dei Goti, e attualmente è esposto nella casa-santuario del Volto Santo di Airola dove la Pantuso è sepolta. Questi fatti sono stati riconosciuti ufficialmente dal vescovo Ilario Roatta con decreto dell’11 febbraio 1976. Il 10 febbraio 2007 è iniziata la causa di beatificazione e canonizzazione della Serva di Dio, Maria Concetta Pantuso, madre di famiglia, nella chiesa della SS. Annunziata di Airola. Padre Bonaventura conosceva bene Maria Concetta Pantuso perché era stato suo confessore nel 1947 ed era stato proprio lui a farle conoscere il Volto della Sindone. La particolare venerazione di p. Bonaventura Martignetti per il Volto Santo era notoria ad Atripalda: un segno di tale fervore è rintracciabile nel volto della Vergine di Lourdes (che si trova nella cappella, recentemente restaurata, adiacente alla chiesa di S. Pasquale), riproducente i lineamenti del volto della Sindone e da lui fu fortemente voluto in quella forma.

La casa dove avvenne il ‘miracolo’ si presenta oggi come un vecchio restaurato palazzo gentilizio del centro antico di Atripalda, sulla strada che porta a Serino; l’ingresso è situato quasi di fronte a palazzo Di Rito. All’interno vi era prima del terremoto un cortile che conservava i caratteri di una costruzione conventuale: un piccolo giardino interno con un pozzo, finestre a volta, corridoi ombrosi. Chi ha avuto modo di frequentare il palazzo, all’epoca dei fatti, ha riferito di aver provato un senso di oppressione dovuto sia allo stile della costruzione che all’ambiente rimasto sospeso nel tempo. Una descrizione ambientale era stata fatta dallo stesso padre Bonaventura, che asseriva che il tavolo su cui desinava la signora Belli proveniva da un pezzo d’altare sotto la cui pietra erano state conservate le ossa di un monaco deceduto nel convento di S. Giovanni Battista. La signora Belli era allora prossima alla sessantina, aveva una corporatura abbastanza robusta, era persona riservata e di poche parole, che imponeva una certa soggezione. Era molto religiosa, benestante con molteplici proprietà, munifica benefattrice delle opere della S. Chiesa, e si dice che in quella grande casa piena di immagini sacre non fosse raro vederla alzarsi in piena notte per pregare. In casa vi era la presenza costante di tre persone (Adele Ravallese, che coadiuvava nei servizi domestici, Franca Nigro e Vincenza Lucignano, due ragazze addette a farle compagnia), e in più di sei bellissimi cani. Era questo, per sommi capi, l’ambiente, dove avvennero i fatti. Dopo che padre Bonaventura ebbe donato l’immagine del Sacro Volto, questa venne arrotolata e riposta in un cassetto della stanza delle ragazze, in attesa di essere sistemata assieme alle altre. La prima a scoprire il fenomeno del sanguinamento dell’immagine fu Adele Ravallese, che notò sulla fronte dell’effige tre piccole macchie rossastre. La signora Belli, prontamente avvertita, chiamò padre Bonaventura, il quale prudentemente consigliò di non rendere noto quanto accaduto e di provvedere a incorniciare l’immagine e a osservarla, convinto che le tre macchie fossero presenti già all’epoca della donazione. Questo avveniva nei giorni precedenti il Natale del 1958. Non accadde nulla fino al 22 maggio del 1959, quando una delle ragazze, Franca Nigro, notò che le tre macchioline assumevano il colore rosso tipico del sangue fresco. Il successivo 28 maggio, festa del Corpus Domini, Adele Ravallese vide che dalle tre macchie scendevano sul volto tre rivoletti di sangue. A quel punto è facile immaginare lo sgomento della signora e delle tre donne, che stravolte non riuscirono a trattenere l’emozione. Con grida scomposte richiamarono diversi vicini, i quali a loro volta potettero osservare il fenomeno. La descrizione fattane da alcuni di questi, principalmente da uno che ebbe modo di avere il quadro tra le mani, fu quella di un grande calore e di un rumore simile a un gorgoglio. Prontamente vennero avvisate le autorità civili e ecclesiastiche, e l’allora parroco di S. Ippolisto, futuro Monsignore Raffaele Aquino, si recò prontamente presso la casa di via Belli per constatare de visu l’accaduto, inviandone relazione alle superiori autorità: a quel tempo era vescovo di Avellino Mons. Gioacchino Pedicini.

Iniziò il classico iter procedurale tipico dei casi eclatanti: vennero sentiti i supposti testimoni, raccolte tutte le informazioni necessarie ecc. La notizia si diffuse rapidamente e cominciarono ad affluire verso la casa numerose persone, inizialmente soltanto incuriosite, poi man mano sempre più emotivamente coinvolte, cosicché si rese necessario collocare alla meglio il quadro nel cortile interno del palazzo. L’eco che ne derivò, sia per le notizie riportate dalla stampa che per il passaparola generato dai frequentatori del mercato settimanale del giovedì, in gran parte forestieri, rese necessari alcuni accorgimenti data la ristrettezza della sede stradale e il piccolo spazio del cortile, per cui dopo meno di un anno il quadro venne spostato in un locale terraneo di piazza Di Donato all’inizio di vico Carlo. Un fatto di tal genere non poteva restare senza ripercussioni sull’opinione pubblica, pertanto come sempre accade si crearono due opposte fazioni: chi credeva nell’intervento soprannaturale e chi rimaneva scettico o assumeva atteggiamenti apertamente ostili.

Le opposte fazioni vennero a crearsi all’interno dell’ambiente che ruotava attorno alle vicende religiose della città: da una parte un gruppo di credenti che aveva vissuto in vario modo il fenomeno e che difendeva acriticamente il carattere miracoloso - si erano formati in momenti diversi due comitati il primo denominato “Sodalizio del Volto Santo” il secondo “Comitato del Santo Volto” - da parte di organizzazioni non riconosciute dall’autorità ecclesiastica che invece faceva capo alla “Associazione del Santo Volto” dei Frati Minori conventuali di S. Giovanni Battista. È da sottolineare che la maggioranza dei cittadini poco si riconobbe in questa contrapposizione né si verificarono significativi episodi di speculazioni politiche ed elettoralistiche, cosa quest’ultima non di poco conto visto il contesto di quegli anni che vedevano a ogni campagna elettorale immagini e statue di madonnine piangenti. Questo è un fatto che depone a favore del confronto civile di una città che viveva un momento politico molto vivace in controtendenza rispetto agli assetti maggioritari di livello provinciale. Atripalda era uno dei pochi comuni, se non l’unico, della bassa e media Irpinia non governato dal partito di governo della ex Democrazia Cristiana. Dopo il terzo sanguinamento avvenuto il 16 giugno 1960 i toni della contrapposizione divennero incandescenti ed ebbero come cassa di risonanza la stampa provinciale, e non solo, dell’epoca. I maggiori protagonisti di questa polemica furono il portavoce delle organizzazioni non riconosciute Franco Mastroberardino e il giornalista del “Corriere dell’Irpinia” Tonino Genovino, non estraneo il parroco Don Raffaele Aquino che capeggiava la stragrande parte del clero che si riconosceva nelle posizioni ufficiali dell’autorità diocesana. Per una migliore comprensione dei fatti va riportato quanto espresso, il 30 aprile del 1960, dal vescovo di Avellino, che come abbiamo già detto a quel tempo era Mons. Gioacchino Pedicini (8 aprile 1883 – 14 gennaio 1980). Dopo aver raccolto tutti gli elementi fornitogli dai testimoni del fatto e dall’apposita commissione medico-scientifica capeggiata dal preside della facoltà di medicina dell’ Università di Napoli il vescovo dichiarò: “…il fenomeno di cui sopra, non presenta caratteri di soprannaturalità. Vivamente esortiamo quindi tutti i fedeli ad astenersi dal prestare qualsiasi culto a detta immagine e a qualunque altra sua riproduzione…”. Un giudizio che l’autorità ecclesiastica sembra attenuare dopo il terzo sanguinamento avvenuto a giugno perché negli Atti del Vescovo e della Curia (Organo ufficiale diocesano) presenti nella Rivista Diocesana edita nel luglio 1960 è riportato il «prodigio di Atripalda», ove pur restando implicita la negazione del miracolo sottolinea l’eventualità di casi miracolosi - evidentemente si riferisce a due guarigioni che presentavano secondo alcuni clinici dei caratteri di eccezionalità - concludendo in sostanza che ognuno è libero di credere come di non credere senza incorrere in nessun caso nel giudizio rigoroso della Chiesa. Con tutto ciò questo fu un duro colpo per chi, indipendentemente dalla sua fede, aveva riposto speranze e lavorava per ampliare i benefici economici insiti nel riuscire a incentivare in una certa realtà il cosiddetto turismo religioso. Nell’anno che era trascorso dall’esposizione al pubblico della sacra immagine, Atripalda aveva visto migliaia di persone provenire, in prevalenza, da tutti i centri della regione e delle vicine Puglia e Basilicata. Un afflusso che aveva fatto sorgere attività di vendita di tanti tipi di prodotti legati a questo tipo di turismo nonché a quello indotto in una cittadina che per sua natura aveva, nei limiti dell’epoca, una buona capacità ricettiva e di ristorazione. A testimonianza del richiamo ‘turistico’ riportiamo quanto risulta stampato sul retro di un’immaginetta che faceva parte dei gadget che venivano venduti : “…P. Pio da Pietralcina, gravemente ammalato in S. Giovanni Rotondo nel giugno del 1959 alle persone che gli chiedevano la benedizione prima di partire per Atripalda in visita al Santo Volto di casa Belli, dice: Andate! È bene andare dove il Signore si manifesta. Pregate per me”. Un ultimo sanguinamento si ebbe il 1 giugno del 1961, ancora una volta in occasione della festa del Corpus Domini, continuarono i pellegrinaggi ma l’interesse esterno andava sempre più diminuendo fino a confinare il fenomeno a un fatto locale. La posizione rigida e rigorosa della Chiesa aveva chiuso tutti i varchi per una eventuale espansione del ‘culto’. Gli interrogativi, i dubbi e qualche certezza li lasciamo a un successivo e ultimo intervento.

Gli interrogativi e i dubbi in una vicenda come quella del Volto Santo rappresentano un aspetto che, potremmo dire, rientra nella normalità. Ogni qualvolta che si ha a che fare con l’irrazionale o con qualcosa d’inspiegabile, le perplessità di natura essenzialmente prudenziale sorgono in modo naturale e generano la tentazione di esprimere un giudizio soggettivo che a volte può confliggere con la realtà degli stessi fatti o con la convinzione di chi l’ha vissuti in modo diverso. In quest’ultima parte cercheremo di attenerci, quanto più possibile, alla documentazione e alle testimonianze cui siamo riusciti ad accedere. Grazie a questi materiali possiamo formulare una serie di quesiti che possono aiutare ad orientarci.

Primo interrogativo: come mai la Commissione Episcopale, per quello che si conosce, non inviò a Roma presso la Congregazione delle Cause dei Santi gli Atti del processo diocesano? L’iter per il riconoscimento del miracolo è materia oltremodo articolata e complessa in quanto rigidamente codificata in età moderna da Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini 1740-1758) con la De Servorum Dei - opera ripresa e ripubblicata da Papa Ratzinger. La risposta più logica è che la Commissione Episcopale avesse raggiunto la piena convinzione che il fenomeno non aveva nessun carattere di soprannaturalità; tuttavia noi sappiamo che, oltre l’esortazione contenuta nel comunicato dell’aprile 1960, non vi sono stati altri provvedimenti, neppure di segno negativo.

Secondo interrogativo: la valenza del miracolo è oggetto di discussioni interdisciplinari che coinvolgono sia l’ambito della filosofia che soprattutto quello della scienza. Quali sono dunque gli elementi scientifici a disposizione? Nel nostro caso, essi si evincono in modo indiretto dalle fonti giornalistiche, attraverso la già citata disputa polemica, i cui contenuti - che pur non essendo stati mai confermati non sono stati mai neppure smentiti - potrebbero costituire un punto di riferimento con qualche solida base. Da quella fonte sappiamo che il liquido sieroso sull’immagine era sangue umano e apparteneva allo stesso gruppo sanguigno della signora Belli e che, anche se i sigilli si presentarono integri, vi era la possibilità che il sangue potesse essere stato iniettato con una siringa. Tutto ciò non può prefigurare un’ipotesi o prova diretta di un illecito intervento esterno (considerato anche che i gruppi sanguigni sono solo quattro), ma va comunque registrato. Altro elemento che certamente ebbe il suo peso fu il giudizio dell’illustre prof. Palmieri, espresso telefonicamente alla presenza di testimoni quali il Capitano dei Carabinieri Carderi, il Maresciallo della Caserma di Atripalda, due messi della Curia e il fotografo Velle di Avellino. Il prof. Palmieri motivò il fenomeno del giugno 1960 come frutto delle condizioni ambientali dovute al caldo e alla scarsità d’aria causata dai fiori, dalle candele e dalle numerose persone presenti.

Sotto l’aspetto teologico-dottrinale la più semplice delle domande che ci si pone è invece: basta la sola manifestazione di un fenomeno, per esempio l’apparizione o la manifestazione portentosa di un evento, per il riconoscimento di avvenuto miracolo? La risposta sembra essere negativa. Nel Nuovo Testamento il miracolo è indicato con quattro termini ricorrenti: atto di potenza divina, segno, prodigio, opera miracolosa. Nelle Sacre Scritture il miracolo, anche quando presentato come opera prodigiosa, resta sempre un “segno” di Dio che a Dio rimanda: per cui resta soprattutto “segno di Cristo” che rivela il suo mandato messianico sintetizzato dalla domanda che i discepoli del Battista rivolsero a Gesù: «“Giovanni il Battista ci ha mandato da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?” In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!”». Appare chiaro che ci troviamo di fronte all’importanza fondamentale dei “segni”. Allora viene da chiedersi: vi sono stati “segni” nella vicenda di Atripalda? Abbiamo già ricordato il caso di due guarigioni che presentavano caratteri di eccezionalità, tuttavia evidentemente la documentazione che fu fornita a sostegno non fu ritenuta sufficiente, come non vennero prese in considerazione innumerevoli altre segnalazioni.

Tuttavia, oltre agli interrogativi e ai dubbi, possiamo parlare anche di qualche certezza. Il Rev. Padre Redentorista Salvatore Titomanlio (Atripalda 1876-Teano 1967) con testamento olografo del 5 luglio 1967, vale a dire venti giorni prima della morte - sempre che i dati dei documenti siano esatti -, istituì la “Fondazione Ospizio Volto Santo” con sede in via Rapolla, 72 nel seicentesco palazzo composto da 26 vani abitabili che aveva precedentemente donato. Con delibera del Presidente della Regione Campania n. 9299 del 30 settembre 1991 a tale fondazione è stata riconosciuta la personalità giuridica. Tale struttura ricostruita è in fase di completamento e potrà ospitare in regime semiresidenziale 45 persone in spazi idoneamente attrezzati. Personalmente non entrerò nel merito, ne esprimerò la mia opinione sull’intera vicenda; ma è dinanzi agli occhi di tutti che la casa d’accoglienza per anziani sarà legata permanentemente alla “Fondazione Volto Santo” e che essa si erge quasi di fronte al locale ove restò esposta fino al 1965 quell’immagine del sacrificio attraverso la sofferenza impressa indelebilmente sul Volto della Sacra Sindone. Un “segno”? Chissà!

Il quadro

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