Venerdì, 29 Mar 24

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Antonio Mastroberardino: dal vino alla storia…

Ritratto del “chimico” di famiglia

Walter, Angelo e Antonio Mastroberardino

Con Antonio Mastroberardino, scompare un protagonista della storia imprenditoriale italiana (e di quella, purtroppo appannata, della città di Atripalda). Antonio aveva appena diciassette anni quando, insieme ad Angelo e Walter, assunsero la responsabilità di un’azienda vitivinicola, certificata dal 1878 (ma attiva da qualche decennio nella commercializzazione del vino), e già aperta ai mercati d’oltre oceano. Era il marzo del 1945, gli ultimi mesi furibondi del conflitto mondiale, ed i fratelli Mastroberardino, dalle retrovie del fronte di Cassino, si affacciavano ad un impegno imprenditoriale in una realtà devastata nel tessuto produttivo e nella rete infrastrutturale. La storia di questa famiglia e di questa sfida ci arriva così, come una lontana epopea, ed è una storia di impegno tenace, ricostruzione, rinascita, come quella che l’azienda affrontò (e vinse) anche successivamente al disastro del 23 novembre 1980.

Antonio, in questa storia, con la riservatezza che fu, ed è tuttora, un riconoscibile tratto di famiglia, si ritagliava, per competenze, studio e passione, il ruolo del ‘chimico’, dell’analista, dello sperimentatore, di chi, insomma, nella cantina-laboratorio si misurava con le straordinarie potenzialità, ancora inespresse, di vitigni faticosamente recuperati alla storia. E così Angelo, Antonio e Walter, grazie ad una accorta e rigorosa politica aziendale, conquistavano riconoscimenti internazionali, attestati di qualità, spazi commerciali. Ma era Antonio, con le sue ‘misteriose’ alchimie (tra profumi, aromi, acidità, bouquet) ad esaltare vocazioni territoriali e tipicità, suggestioni ed antiche memorie di blasonati vitigni onusti di storia, ma flagellati e distrutti tra Otto e Novecento dalla fillossera. Tutto questo in un viticoltura, come quella Irpina, rassegnata ad una produzione quantitativa, al traino di quella pugliese ed al più ad una anonima esportazione di ‘servizio’ rispetto ai più blasonati vini francesi ed allo strapotere delle grandi aziende piemontesi e toscane. I riconoscimenti doc e docg al Fiano di Avellino, al Greco di Tufo, all’Aglianico ed al Taurasi, i disciplinari, la ricerca costante della qualità, il legame con la terra, le vigne, la scelta strategica (e caparbia) di non abbandonare le antiche cantine di via Manfredi, (appena al di qua della mura possenti della Civitas Abellinate), anticipava un modello aziendale che muovendo dalla terra e dalle vocazioni dei territori si misurava con intuizioni imprenditoriali e strategie commerciali, imponeva nel mondo un marchio (oggi si direbbe un brand) con radici profonde ed autentiche nella storia Irpina. Una Irpinia, che dopo le iniziative di Cassitto e poi di Francesco de Sanctis (promotore nel 1879 di quella straordinaria istituzione che fu - e potrebbe ancora essere - la Scuola Enologica Irpina) avrebbe sprecato, prima e soprattutto dopo il sisma del 1980, tante occasioni inseguendo modelli industriali di importazione, e promesse miracolose di sviluppo, tutte destinate (esauriti i soccorsi statali) al fallimento. Per questo la improvvisa scomparsa di Antonio Mastroberardino, proprio mentre l’azienda si va aprendo con il figlio Piero a nuove sfide imprenditoriali, suscita una malinconica riflessione su quello che poteva essere (e purtroppo non è stata) l’industrializzazione in Irpinia. Alla quale i modelli di importazione (con qualche sporadica eccezione) hanno fatto più male che bene, perché spesso applicati con burocratica diligenza, ma senza la capacità di guardare lontano, con il cuore saldamente legato alle proprie vocazioni ed alla propria storia familiare ed imprenditoriale orgogliosamente esibita al mondo (Mastroberardino. Atripalda - Italy).

Ho conosciuto bene Angelo ed anche Antonio in una lunga e reciprocamente rispettosa frequentazione. Con Antonio ricordo le conversazioni nello studio ovattato e severo, al piano terra dell’azienda in via Manfredi; mi colpiva la sua sincera preoccupazione, mai disgiunta da una ragionevole speranza, che Atripalda ritrovasse le energie intellettuali e morali per riconquistare gli spazi che ne avevano segnato la vocazione ed il glorioso passato. Che non era inerte memoria, ma vita concreta, traccia sulla quale innestare concrete possibilità di rilancio di un blasone imprenditoriale e commerciale che appariva, già trent’anni fa, sempre più lontano e sbiadito. Per questo - mi diceva - era deciso a lasciare azienda e cantine ad Atripalda, che era insieme una sfida e un atto d’amore. Negli ultimi anni aveva intensificato le sue passeggiate in Città, nel centro storico, stravolto, eppure restituito in parte ad un decoroso rilancio. Aveva accompagnato l’entusiasmo di una manifestazione ambiziosa e straordinaria (anche questa purtroppo cancellata da ottuse burocrazie) come “Terra mia”; aveva incoraggiato un progetto pubblico di rilancio della Dogana dei Grani, seguiva con passione e curiosità il ricco progetto culturale aziendale. Ai numerosi visitatori delle cantine, un flusso costante di curiosi, esperti, turisti di ogni parte del mondo, parlava di Atripalda, del sogno romano di Angiolo (il nonno), dei viaggi a Buenos Aires del padre Michele, di Abellinum e di Pompei (dove aveva avviato, insieme a Piero, una sperimentazione internazionale sulla vinificazione con uve provenienti da vitigni autoctoni, suggestivamente reimpiantati nei giardini di Pompei).

Parlava di questo Antonio, fino a martedì, quando improvvisamente il suo cuore ha cessato di battere. In memoria. Provando caparbiamente anche oggi a progettare il futuro.

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